CORRISPONDENZE
AGGIRARSI
Quattro interrogativi e risposte tra Marzia Migliora e Patrizio Esposito in forma di lettera, agosto 2024
Rituale del serpente
Patrizio Esposito. «Poco elevato da terra», Humilis e saettante insieme. Fulmine, portatore di pioggia, di nuova vita, il serpente avvolge il braccio degli Hopi come già fece con le Baccanti (danzanti nel tempo, roteanti gli uni e le altre). «Gli uomini sanno solo fare in parte ciò che l’animale è, interamente», si legge in Cushing e in Warburg: a dirlo è il tessitore nativo, l’irrigatore di terre aride, il seminatore stretto al serpente. In trasparenza, a guardarsi dall’alto, spalla a spalla, sono l’uomo-l’animale-l’arciere, li osserviamo nei cinque arazzi sospesi al Mao di Torino, guardando dal basso, salendo e scendendo sulle scale e in noi. Non sono soli, incrociano i motivi dell’oriente plurimo in cui oscillano (fiori, edifici, cavalcature, calligrafie), li urtano e li accolgono essendo ospiti. Una sola orditura in loro (positivo e negativo concordi) preserva il silenzio alzando la voce. Lingua unica, lingua sdoppiata, sapiente, a prender luce da ogni filo pendente.
Da una fotografia. Intorno all’ampio tavolo su cui è disteso un arazzo, quattro persone oltre te osservano e toccano l’opera. Cosa sta accadendo, cosa precede e ottiene quella presenza?
Marzia Migliora. Sapevo che dovevo realizzare un lavoro a partire dalle suggestioni della collezione del Mao, Museo d’arte Orientale a Torino, e che avevo davanti a me un tempo aperto per lavorare, progettare, pensare, fare e disfare. Un privilegio che raramente viene concesso. Il tempo che ho dedicato allo sviluppo del lavoro, circa un anno e mezzo, è stato dettato dall’opera stessa.
Ho iniziato a lavorare chiedendo qualcosa che non si chiede ai conservatori di un museo: realizzare dei frottage su sculture, tombe, vasi e oggetti rituali, tutti conservati nei depositi, quindi non visibili al pubblico. Solitamente una richiesta del genere mette in crisi lo statuto stesso dei reperti e delle opere d’arte: i pezzi della collezione non si toccano, vanno conservati intatti, frammenti di tempo e reliquie che il museo deve consegnare intonse alle generazioni del domani. Invece, per realizzare un frottage gli oggetti devono essere toccati e manipolati: si appoggia un foglio sottile sul soggetto che presenta un rilievo e si ripassa la superficie con una matita, la grafite sfregata trasferisce quel rilievo sulla carta. Questo è un gesto dirompente, che è stato possibile grazie all’aiuto del personale e delle conservatrici del museo che hanno seguito con minuzia e interesse tutto il processo.
Quattro persone oltre te osservano e toccano l’opera. Toccare è un gesto solido, toccare tombe cinesi del VI secolo, oggetti rituali, piatti dove qualcuno ha mangiato, creati in un altro tempo, appartenenti a un’altra storia, un’altra cultura, un altro Paese, un’altra lingua e religione è come creare una sorta di nuova ritualizzazione. Realizzare un frottage è come ripercorrere il gesto di chi ha realizzato quel manufatto, quel rilievo, è come lavorare insieme a qualcuno distante nello spazio e nel tempo. Dunque, essendo gli arazzi nati da questi frottage, ciò che è accaduto somiglia a un’alleanza e una stratificazione non solo di forme, ma anche di gesti, manuali e concreti. Agire sulla collezione mi ha permesso di costruire una prossimità con essa. A questo proposito, l’invito di Davide Quadrio, il direttore del Mao, risponde all’esigenza concreta di mettere in discussione il punto di vista occidentale su queste collezioni per aprire nuovi punti di vista. Le modalità con cui questi reperti sono arrivati a noi è la parte più spinosa: essi non appartengono alla nostra cultura e per la maggior parte sono stati razziati, andando contro la volontà di chi li possedeva, per diventare qui, in Occidente, il simbolo di un lontano Oriente, affascinante mondo edificato nell’immaginario collettivo che non corrisponde però alla realtà delle culture di provenienza.
Le immagini dell’arazzo prima di essere trasformate in trama e ordito, nascono da un disegno su carta di dieci metri di lunghezza per centotrenta centimetri di larghezza. Ho iniziato questo disegno fissando le due strisce di carta con i frottage realizzati al museo al foglio di dieci metri. In queste due strisce laterali al disegno vi è una commistione di storie che sono tenute insieme da una sorta di mimetismo con la parte centrale dell’opera, esse portano avanti la narrazione senza soluzione di continuità, unite dalla presenza di serpenti, che strisciano a terra, si ramificano duplicandosi, scompaiono e riemergono, serpeggiando dalla cima al fondo del disegno e cambiando pelle (senza morire).
Ho scelto di lavorare liberamente, senza bozze preparatorie, avevo tutto il mio bagaglio maturato nel tempo: lo studio, le immagini, i libri, l’osservazione dal vivo dei reperti e i miei viaggi in oriente, da qui derivano le scelte iconografiche che si sono scritte da sé come una scrittura automatica. Un lavoro di queste dimensioni comporta un rapporto molto fisico con il disegno, è tutto il corpo che si muove sul foglio nell’atto di disegnare. Forse è scoprendo i retroscena di questo lavoro di grandi dimensioni, che è stato nel mio studio per più di un anno, tra pause e riprese, che si può meglio comprendere «cosa precede quella presenza», come tu mi chiedi. All’interno dell’opera vengono affrontate diverse tematiche e molteplici soggetti. La prima cosa che ho disegnato è una pianta di cotone capovolta, altre piante da tessitura abitano tutto il disegno. Inoltre, sono presenti immagini che provengono dall’Encyclopédie delle arti e dei mestieri di Diderot d’Alembert, per me connesse a un momento molto importante della storia perché coevo alle rivoluzioni industriali, oppure immagini di edifici industriali antichi e contemporanei, storiche fabbriche tessili, che producono probabilmente i vestiti che indossiamo in questo momento, che sono andate a fuoco.
Nello specifico, le fabbriche tessili sono tra le attività più vulnerabili agli incendi, soprattutto se vi è negligenza nei controlli di sicurezza, e più ci si sposta a Oriente più questo fenomeno è drammaticamente comune. E così in tante altre occasioni, questi disastri nel mondo del lavoro hanno portato le persone a scendere in strada per urlare, attraverso i cartelli e con la propria voce, «Avvolgi la tua lingua tra stoffe di seta…» – molti slogan di queste proteste compaiono nell’opera – un diritto a non sopravvivere di lavoro, ma a vivere di lavoro e non morire di lavoro. Uno dei temi più importanti del disegno, dunque, è quello che collega il sesso femminile alla tessitura, sia come componente di emancipazione che come modalità di oppressione, l’unica figura umana che compare nell’opera è una donna a cavallo, il nitrito disapprova il giogo.
L’opera, un arazzo tessuto a telaio meccanico con circa 600 ore di lavorazione, tenta di rappresentare degli episodi della storia della tessitura a partire dalla sua meccanizzazione, con lo stesso materiale tessile.
Pezzo dopo pezzo, la carta mi chiedeva di cosa aveva bisogno, e io rispondevo con dei tentativi, per arrivare al traguardo di quei dieci metri che mi ero imposta.
Appena terminato, il disegno su carta è stato esposto al Tai Kwun Museum di Hong Kong nella mostra The Green Snake: women centered ecologies a cura di Kathryn Weir.
Successivamente, le riproduzioni fotografiche del disegno in scala reale sono state affidate alle mani di Giovanni Bonotto, che ha realizzato materialmente la tessitura, rispettando ogni elemento, sfumatura e trama della matrice: il disegno su carta. Gli arazzi tessuti in carta washi giapponese, plastica riciclata, lana moretta e velo di cellulosa, fanno parte della collezione permanente al Mao di Torino dal novembre 2023.
Qui è palpabile una magia mista a maestria, ad amore per l’arte, a rispetto per l’artista, a grande passione. Bonotto ha saputo realizzare quello che avevo in mente, attraverso la tecnica e all’intelligenza.
La trasformazione del disegno in arazzo ha reso l’opera ancora più pregnante: raccontare sotto forma di tessuto il legame tra l’industria tessile, il capitalismo e le specie che sono nostre alleate. Soprattutto questo ultimo punto: tutto quello che ci circonda, le specie che sono vicine a noi e che convivono con noi su questo pianeta ci vestono. Se l’industria tessile è diventata, con la decentralizzazione delle fabbriche e il fenomeno del fast fashion, uno dei nodi problematici della globalizzazione, essa ci ricorda al contempo l’antica alleanza umile, fatta di mani che tessono, raccolgono, coltivano e si rapportano continuamente alla terra. Poco elevato da terra, humilis, stare coi piedi per terra, avere coscienza del perché la stiamo violentando, questa terra, sono processi necessari per averne rispetto. Sono umili le mani dei contadini, sono umili le mie mani che sembrano quelle di un uomo che ha lavorato tanto nella vita. Ebbene, queste zone di umiltà sono quelle che il mio lavoro vuole valorizzare, elevare e forse ritualizzare.
Nel Rituale del Serpente ci sono delle mani, molte mani, e sono mani che arrivano dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, quelle mani che ci raccontano le arti e i mestieri del tessile così come sono stati codificati dall’enciclopedia. Il Rituale del Serpente è installato su una scala; si può camminare sui gradini guardando in alto e assaporando quella vertigine protagonista di un mio altro lavoro, Il vuoto a ogni gradino (2006): un’opera in caratteri Braille in rilievo su un mancorrente di una scala alla Collezione La Gaia (Busca), che vede citata la poesia che Eugenio Montale scrisse per la moglie appena scomparsa, nominata Mosca perché non vedente, e che si conclude dicendo «Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue».
Ebbene, questo ci riporta a una dimensione in cui si scopre ciò che non si vede, in cui si aprono gli occhi verso quello che ci circonda ma che, forse, poco ci attraversa. Essere circondati non significa essere attraversati, essere attraversati vuol dire comprendere: provare dolore quando una fabbrica a novemila e ventinove chilometri di distanza va a fuoco e uccide mille operaie e operai.
Forse quell’alto e quel basso parlano di vita e di morte. La scala è considerata sacra in molte culture, quel salire verso la pioggia che gli stessi serpenti rappresentano è forse un salire, un innalzarsi nel momento in cui ci rendiamo conto che quello che ci circonda dovrebbe essere anche quello che ci attraversa. Quindi riuscire a farci toccare dalle realtà dell’altro, sentirle anche nostre in quanto abitanti di questa Terra e di questo tempo è l’indice di appartenenza allo stesso corpo sociale.
Fame d’aria
P.E. «Non è perché ha scoperto una propria cultura che l’indocinese si è ribellato; è ‘semplicemente’ perché per più motivi gli era impossibile respirare». Tra le riflessioni, scritte da Frantz Fanon tra il 1957 e il 1961 intorno alla lotta di liberazione algerina contro il colonialismo francese, compare un testo sulla resistenza vietnamita: la rivolta contro l’occupazione si estende non solo perché cibo e indipendenza vengono a mancare, è l’aria stessa a sparire. Se fatico a respirare prendo le armi contro chi mi soffoca. «Diritto al respiro» è oggi una rivendicazione del Fronte Polisario: i prigionieri politici sahrawi, detenuti senza prove dal regime monarchico marocchino, devono poter rivedere la luce e riprendere fiato.
Un macchinario è poggiato al pavimento d’ingresso della galleria Lia Rumma di Napoli. È costruito con materiali eterogenei, un’asta da microfono, una tanica d’acqua, un richiamo per uccelli, un motore (una pompa di piccole dimensioni), altro. L’aria presa e restituita gonfia e sgonfia i tubicini elastici tenuti in alto dall’asta, il tutto potrebbe tornare utile ad ascoltare «il respiro dei pesci». Altri prodigi o inquietudini vengono dagli osservatori, il macchinario estende la loro percezione, porta a considerare l’oltre le mura della galleria. Al non visto che procede in strada e incontriamo mutevole nell’andar via, qualcosa è cambiato in noi restando intatto nell’opera chiamata «Lek». Nelle altre stanze ancora movimento, fino ad un foro obliquo nella parete, cani o lupi attendono i nostri occhi, si muovono leggeri tra suoni naturali sorti dall’artificio, dalla simulazione del familiare,
dall’equivoco del cosa siamo, cosa crediamo sia il sentire e il vedere. Tutto ci diffida qui dal credere ai sensi.
Da un ricordo. Ti vedo assemblare il primo macchinario, vedo la parete appena forata, il gran disegno venuto dall’impronta dei pesci immersi nel nero di seppia. Ritrovo l’appunto sulla tecnica del ‘Gyotaku’, quanto altro andrebbe detto a chi non ha visto o creduto di vedere?
M.M. Lek è una storia d’amore: nel suo ventre – il motore – porta una pietra di folgorite, la quale si crea dalla cristallizzazione della sabbia dopo esser stata colpita da un Fulmine, portatore di pioggia, di nuova vita. Ho immaginato questo scontro tra basso e alto, questo boato crepitante di scintille, come un innamoramento, un’alchimia che trasforma ciò che non lo è in una materia preziosa.
Lek ha poi una tanica d’acqua, una tanica ospedaliera per la respirazione assistita, dove all’interno scorre dell’acqua magica come l’Aqua Micans di Raymond Roussel, in grado di resuscitare i morti. Lek apre la sua coda di pavone, gonfiando e sgonfiando il culmine della scultura di gomma, ispirandosi agli straordinari rituali di accoppiamento degli uccelli giardinieri, danzanti nel tempo, roteanti gli uni e le altre, che costruiscono elaborate scenografie in cui attuare le proprie danze per impressionare l’amata, degne di un grande coreografo-architetto. Lek è anche un richiamo: ho sempre pensato che gli uccelli, avendo la facoltà di andare dal basso all’alto, possano raggiungere luoghi segreti, che noi non possiamo vedere.
Nel 2006, alla Fondazione Merz di Torino, intitolai la mia mostra personale a cura di Beatrice Merz, Tanatosi, ovvero quello stato di immobilità in cui gli animali si pongono quando hanno paura e fanno finta di essere morti. Gli operai di Dhaka, insieme a tutti gli altri che fanno parte di quella triste categoria nominata “morti bianche”, non hanno fatto finta di essere morti, sono morti davvero. L’idea di portare alla luce qualcosa che non si vede – o che è più comodo non vedere – è molto presente nella mia ricerca, come per esempio in Velme, titolo della mia mostra personale a Ca’ Rezzonico nel 2017. Le velme sono degli isolotti che appaiono nella laguna veneziana solo durante la bassa marea, affiorano e scompaiono continuamente, ma negli ultimi anni stanno scomparendo del tutto, per l’inquinamento e la gestione irrispettosa delle coste, della laguna e dei fondali.
Così, nella mostra a Ca’ Rezzonico, faccio ritornare a galla quelle ingiustizie antiche ma che sono ancora tristemente contemporanee, rimaste intatte per secoli sotto ai nostri occhi.
Nella mostra, dunque, cerco di fare questo parallelismo tra il Settecento e oggi: si può dire che la schiavitù sul lavoro sia scomparsa? Quali sono le condizioni dei lavoratori e quali sono i Paradossi dell’abbondanza (titolo di una serie di mie opere 2017 - in corso)?
Lessico inverso
P.E. «Riordino della lingua», Dilin yeniden düzenlenmesi, il generale Mustafa Kemal (Atatürk), disfatto l’Impero ottomano, impone alla giovane Repubblica turca di smarrire il suo antico alfabeto (la radice araba-persiana è «obsoleta», va estinta): nel 1928 vieta l’uso di sei lettere (X, W, Q, Î, Û, Ê) e adotta il latino. Sei segni in meno, cruciali per venti milioni di scriventi, disattivano la lingua curda, chi li disegna affronta il carcere. Poesie, romanzi non scritti, ricordati a memoria o portati oltre confine, custodiscono più alfabeti (cirillico, arabo, farsi e latino) per dire in lingua ostinata che il curdo ancora serpeggia, battendo la legislazione che produce afonia, echeggiando su labbra isolate e in cori spavaldi. Voce ha chi grida in sé stesso prima che all’aperto, dicono Firat Ceweri, Suwara Ilkhanizada o Choman Hardi. «Avvolgi la tua lingua tra stoffe di seta…» è il loro invito: fare e disfare, tener pronti i telai, da lettere proibite è scosso ogni singolo nodo, corda su corda.
E voce ha la carta, se incontra la superficie degli alveari operai di Valle Cascia dopo aver camminato a lungo. «Paradossi dell’abbondanza» (Peoples over profit), irradia parole ribelli venute da lontano, ancora da oriente, dal Bangladesh in fiamme, avvicinando a tre righe di protesta un cavallo nero. Animale domestico, al lavoro per noi, i suoi muscoli consegnati all’ordine economico delle signorie (minoranza armata di leggi non scritte), domestico il cavallo, grezzo il capitale (oro difeso da spade moderne, cursori azionati a distanza). Eppure, ecco che nel gran disegno, visibile a distanza, l’animale perde il morso, la mandibola si libera dalla pressione dei finimenti (su lingua, palato e barre), il nitrito disapprova il giogo. Voce tra voci, si allea alle pietre, ai balconi, ai corrimani, agli abitanti, tre regni anticipano la disobbedienza dell’inverso, gli alfabeti segreti dei segni a venire. In strada, tra la folla, nulla sarà più voce privata.
Da una fotografia. L’edificio degli anni Settanta, costruito per la manodopera della Fornace Smorlesi, ha una sezione con balconate ora coperte: parole e cavallo affiancati si affacciano dalla carta su cui compaiono, sospesi. Cosa dicono ai vicini (e coi vicini), cosa li ha portati lassù?
M.M. Nel risponderti penso a Taci anzi parla, del 2017 un’opera che ho realizzato per la mostra personale Velme, a cura di Beatrice Merz, a Cà Rezzonico a Venezia. Voce ha chi grida in sé stesso prima che all’aperto: Taci anzi parla è citazione e rivelazione del dipinto di Pietro Longhi Il Rinoceronte e contemporaneamente il titolo cita il libro Taci anzi parla. Diario di una femminista (Scritti di Rivolta Femminile, 1978) di Carla Lonzi, teorica del femminismo radicale italiano. Nel dipinto del Longhi una dama dalla veste bianca, rappresentata sullo sfondo, indossa una maschera dell’epoca, a uso unicamente femminile, detta Moréta: un ovale nero con due buchi in corrispondenza degli occhi. Le donne potevano fermarla sul viso soltanto stringendo tra i denti una mordacchia, rimanendo costrette, in questo modo, a tacere. Ho riprodotto la maschera a partire da un calco sul mio volto e l’ho collocata nel boudoir di Cà Rezzonico al centro di una teca trasparente all’altezza dello sguardo, in modo che fosse rivelata al pubblico e che potesse essere vista in tutta la sua interezza, compreso il retro.
La mancanza è un tempo, una condizione che nel mio lavoro e nella mia vita esiste e persiste. Mi piace la parola “deficit”, imparata nella sua radicalità da Oliver Sacks, che esprime la mancanza di qualcosa, dalla mancanza nasce spesso un tentativo di colmare il vuoto, anche se doloroso. Forse di quelle X, W, Q, Î, Û, Ê dall’alfabeto corrotto e mancante, che renderà impossibile scrivere in una lingua nota, ma non potrà soffocare il nascere di un nuovo alfabeto capace di esprimere l’appartenenza di un popolo alle proprie origini. Credo più nel potere dei letterati e dei poeti che in quello della censura.
Il Rituale del Serpente credo sia lo scorrere, lo scorrere come un fiume, un fiume che si può affiancare andando nella stessa direzione ma anche andando nella direzione opposta.
La carta sa urlare, da sempre, la carta urla. Meno male che la carta sa urlare ma anche purtroppo, per i roghi di libri, il blocco di film, la prigionia di dissidenti, la morte di chi radicalmente ha difeso le idee di tanti sacrificando la propria. La carta sa urlare sotto la mano di chi ha qualche cosa di vero da dire e sa arrivare a segno come un proiettile ma senza uccidere. Il cavallo è il simbolo del lavoro cieco, del lavoro imposto con i paraocchi e il paraorecchie per sopravvivere (Se fatico a respirare prendo le armi contro chi mi soffoca), «Diritto al respiro» è Lek ma anche simbolo della forma di sfruttamento dei corpi e modello estrattivo intensivo a fini agricoli e alimentari, cito un mio lavoro: La gabbia, del 2019-2020, parte della mostra personale dal titolo Lo spettro di Malthus, al Museo Maga di Gallarate, a cura di Matteo Lucchetti. L’opera porta a una riflessione sul valore del denaro in relazione al modello di vita proposto nella società dei consumi che viviamo. Siamo clienti felici? L’insoddisfazione è forse la trappola che crea perpetuamente desiderio, e ci spinge a rincorrere sempre qualche cosa che appare migliore?
Soggetto dell’installazione sono alcuni elementi di un box per cavalli, cui il visitatore è invitato a entrare, al suo interno alcuni elementi suggeriscono la presenza di un cavallo: un paraocchi e un paraorecchie, una coda, un ferro di cavallo delimitano il perimetro del corpo mancante dell’equino. Avvicinando lo sguardo verso il paraocchi-paraorecchie è possibile sbirciare da un occhiello monoculare che permette di immergersi in un diorama teatrale che mostra un paesaggio illusorio di flora e fauna lussureggiante, popolato di capi di stato, composto a partire unicamente da centinaia di frammenti ricavati da immagini di banconote provenienti da tutto il mondo.
Ritorno del sepolto
P.E. «Tu, Uccello, impari a essere soltanto una linea e il piano alto di un segreto». «Hai previsto le grida in tutti i sensi del mondo e della lingua come un filo perdutamente avvolto?» Antonin Artaud, che scrive lettere a Paolo Uccello da coetaneo, azzerando i secoli, «Amico mio, mia chimera [...] strozzato è il mondo, e sospeso, ed eternamente vacillante», chiama sé stesso «l’intraducibile». Sospesi e vacillanti, fili perdutamente avvolti, grida, sono nel tuo lavoro, difficile al tradursi e ostile alle scuole statiche del sempre uguale. Vicino, invece, ai «Fossili guida», Leitfossil, ai fossili in movimento, ai Pathosformeln, eletti da Warburg perché capaci di «invertire le cronologie», quanto produci segue il salto in cui l’arcaico incrocia il presente: il principio del ritorno del sepolto si annuncia a Venezia, in Stilleven/Natura in posa, ad esempio, dove un ambito esteso dell’infanzia si scopre maturo, il trauma e la felicità finalmente si affrontano (ad armi spuntate, inservibili). Chi e cosa ci ha messi al mondo vaga nello specchio inclinato, con noi in primo piano. «Perché è questa l’intelligenza: aggirarsi», ci dice Artaud. L’aggirarsi, il muoversi intorno, puntando e centrando il reale, anche nell’allontanamento, mi sembra sia il tuo procedere. Spedito, nodo su nodo, critico. L’inevitabile in campo.
Da un ricordo: 56ma Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2015: da più̀ spiragli i «fossili in movimento» scorgono il presente, il remoto ambiente familiare è qui, oggi, capovolto e dritto, il granturco a nutrire gli occhi, ad avvicinare i tempi (senza unirli), lo specchio semi aperto dell’arredo a moltiplicare i singoli grani, il «giallo mais» a svegliare la retina affaticata dell’osservatore. Si viene fuori sgombri dal resto già visto intorno, quest’ultima immagine non va via invece. Ci si chiede il perché senza riuscirci, ed è una fortuna. È così Marzia: in noi, a scuoterci, agiscono antiche stanze?
M.M. Rispondo alla tua domanda con alcune suggestioni da opere recenti che rimandano a «l’intraducibile». La prima: Nelle altre stanze ancora movimento, fino ad un foro obliquo nella parete, cani o lupi attendono i nostri occhi: Run fast and bite hard (entre chien et loup), 2022.
La seconda ho piacere di raccontarla citandoti: «Gli uomini sanno solo fare in parte ciò che l’animale è, interamente». Di seguito un estratto della sceneggiatura di Partitura multispecie andante, del 2022. Si tratta di una performance che è stata realizzata dal vivo il 14 dicembre al museo delle Civiltà di Roma, a cura di Matteo Lucchetti, un «Riordino della lingua» con i rumoristi dello storico studio Marinelli Effetti Sonori. La sua registrazione oggi accompagna i visitatori alla visita delle collezioni paleontologiche e lito-mineralogiche dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ed è parte della collezione permanente del Museo delle Civiltà.
Vedi una macchia argentata sotto il pelo dell’acqua che si muove come un serpente. Un rettile vertebrato, il Lariosaurus balsami, con lunghe pinne da 60 cm che sembrano ali vola tra acqua e aria… Lentamente come fosse da una casa di pietra escono 4 zampe, come 4 serpenti unghiati che strisciano fuori… Radici che avanzano come serpi nel suolo, spaccando, strisciando su rocce muschiate, succhiano linfa e fluidamente la portano fino in cima alla piante vincendo la gravità… Qui si chiude la Partitura Multispecie Andante. L’essere vivente e il suo cane svaniscono e suoni liberi primordiali che l’umano non conosce concludono l’orchestrazione dei cicli vitali delle specie.
«Fossili guida», Leitfossil, ai fossili in movimento, ai Pathosformeln, eletti da Warburg perché capaci di «invertire le cronologie». Qui il salto in cui l’arcaico incrocia il presente: il principio del ritorno del sepolto, corrisponde a una rappresentazione che ci interroga sulla millenaria relazione tra uomo e ambiente e sulle conseguenze che un’economia basata sullo sfruttamento delle risorse sta avendo sul pianeta: «strozzato è il mondo e sospeso, ed eternamente vacillante».
L’opera evoca tre paesaggi sonori ad opera di rumoristi per il cinema, i rumori sono infatti esclusivamente prodotti in maniera analogica, essi imitano i suoni della natura facendoli percepire a noi come autentici. Mi diverte questa trappola, tra inganno e illusione, questa incapacità di spirito critico uditivo, messo alla prova anche ogni volta che andiamo al cinema. La sceneggiatura, scritta con Elena Pugliese, è stata eseguita dai rumoristi come una partitura utilizzando le mani su oggetti di uso comune: acqua, stracci, lattine, scarpe, sassi. Il primo atto racconta sonoramente l’avventura di un essere vivente che attraversa in cammino le ere che ci separano dall’origine della specie. Durante il viaggio, il protagonista incontra invertebrati, fossili, trilobiti, echinodermi, ammoniti, bivalvi, gasteropodi, rettili, pesci del Pleistocene e fossili vegetali. Il secondo atto riguarda la collezione lito-mineralogica di Marmi Antichi: decine di blocchetti 20x15 cm, che vantano l’antico abuso estrattivo di questa preziosa materia per edificare le nostre città fin dai tempi dell’Impero Romano. Qui il mio intervento è una traccia sonora che si può ascoltare da cuffie fissate alle vetrine espositive. Indossandole, i fruitori possono ascoltare i rumoristi che bisbigliano i nomi dei litotipi, accompagnati da suoni di masticazione e ‘sgranocchiamenti’. Il suono compara l’estrazione di minerali ad una masticazione con suoni ASMR (autonomous sensory meridian response), esemplificativi della fame umana che consuma risorse non rinnovabili.
Il terzo atto riguarda una sezione in cui sono esposti Plastici geologici storici, realizzati a corredo della Carta Geologica d’Italia, qui la sonorizzazione comprende suoni originali tratti da pellicole che hanno fatto la storia del cinema, provenienti dall’archivio Marinelli, evocano lo scorrere della vita umana legata ai luoghi descritti da modellini e cartografie.
Questa e altre opere come Stilleven (2015), sono tentativi di rievocazione/reenactment delle mie e delle nostre antiche stanze, in cui il mais – in tempi che non sono quelli degli Inca – era sacro e si custodiva in casa, perché avrebbe garantito la sopravvivenza della famiglia.
Queste opere sono forse un tentativo di riabitare quelle stanze, di seminare radici, di sentirsi umili e potenti come il serpente, che vive a contatto con la terra, ma anche capaci di guardare i voli degli uccelli selvatici, persino quelli che sanno volare all’indietro, come i colibrì. Un linguaggio, quello del volo, che nelle tradizioni contadine è portatore di messaggi. Mio nonno diceva che quando le rondini volavano basso, quasi a toccare la terra, da lì a poco sarebbe piovuto. Il nativo Hopi, antico irrigatore e guerriero, in lui.